Il quotidiano turco Aydinlik ha intervistato Alberto Togni, in qualità di membro della Direzione del Partito Comunista, sul tema della neutralità svizzera e del suo avvicinamento alla NATO. L’intervista è apparsa sull’allegato cartaceo settimanale “Aydınlık Avrupa” ed è consultabile anche online (in lingua turca) al seguente link.

La commissione creata dal Dipartimento federale della difesa, della protezione della popolazione e dello sport (DDPS) ha presentato il suo rapporto con oltre 100 raccomandazioni in 7 aree su come la Svizzera dovrebbe orientare la sua politica di sicurezza per il futuro. Il rapporto afferma che: “La cooperazione con la NATO e l’UE dovrebbe continuare ad approfondirsi per raggiungere una capacità di difesa comune e svilupparsi in una vera e propria cooperazione di difesa”.

1- Cosa ha spinto il governo svizzero a cercare legami più stretti con la NATO e una maggiore cooperazione in materia di difesa con l’UE (che non è una vera e propria organizzazione militare)?

Questo rapporto, le cui conclusioni, se approvate anche solo in minima parte, segnerebbero una rottura totale nella politica estera svizzera, non è nato dal nulla.

Credo che la politica estera di neutralità e indipendenza della Svizzera abbia cominciato a essere male tollerata dalla NATO (cioè gli Stati Uniti) e l’Unione Europea già a partire dagli anni ’90. In quegli anni nel nostro Paese si levano alcune voci che iniziano a riflettere sulla necessità di modificare il concetto di neutralità in vigore durante la Guerra Fredda, per aggiornarlo al nuovo contesto mondiale. Non dimentichiamo che nel 1996 la Svizzera ha aderito al Partenariato per la pace della NATO e qualche anno dopo il nostro Paese ha partecipato alla missione di “peacekeeping” della NATO in Kosovo. Nello stesso periodo, anche l’Unione Europea inizia a fare pressioni affinché ne si diventi membri, lamentando il fatto che la Svizzera approfitta dei vantaggi del mercato dell’UE senza dover adempiere ai propri doveri. In quel periodo, tuttavia, il processo si è evoluto molto lentamente, senza rotture o svolte, probabilmente anche perché le resistenze interne alla Svizzera erano ancora molto consistenti e la pressione dall’estero non ancora così forte. La svolta più profonda e grave avviene dopo l’intervento dell’esercito russo in Ucraina nel febbraio 2022.

Dopo aver affermato con convinzione nei primi giorni che la Svizzera non avrebbe imposto sanzioni alla Russia, il governo federale, a seguito di un incontro con l’ambasciatore statunitense in Svizzera, fa dietrofront e aderisce a tutte le sanzioni dell’UE (che sono una cosa molto diversa dalle sanzioni dell’ONU). Da quel momento in poi, la situazione inizia a evolversi molto rapidamente. Il governo afferma che la neutralità svizzera, così come esiste oggi, non ha più senso e che è necessario pensare a una sua profonda trasformazione. Tutti i pacchetti di sanzioni dell’UE sono stati puntualmente adottati, il divieto di esportazione di armi è stato messo in discussione in diverse occasioni e il governo federale inizia a pubblicare a un ritmo allarmante diversi documenti e rapporti che affermano la necessità di integrare sempre più la Svizzera nell’Unione Europea e nella NATO, approfondendo l’interoperabilità delle rispettive forze armate e aderendo a progetti militari come l’iniziativa europea “Sky Shield Initiative” o la più recente decisione di partecipare al progetto “PESCO” per la mobilità militare. Credo che le cause di questo rafforzamento dei legami siano quindi complesse, ma essenzialmente due: da un lato, la NATO e l’Unione Europea non potevano più sopportare la nostra politica estera neutrale e hanno approfittato della guerra in Ucraina per accelerare il processo, iniziando a fare lobbying politico, economico e sfruttando non da ultimo la potenza di fuoco dei media e di tutti quei circoli di “think tank” e intellettuali che obbediscono a Washington e Bruxelles. La seconda ragione è che la resistenza a questo processo interna al Paese si sta affievolendo, perché la nostra classe politica è sempre più debole e meno capace di perseguire gli interessi nazionali del nostro Paese, e perché c’è un segmento del gruppo dirigente che ha effettivamente interessi economici e politici nell’ottenere l’adesione della Svizzera a queste due organizzazioni e, come detto, ha ora l’opportunità di sfruttare questo momento storico per dare una nuova spinta. Non da ultimo, con l’eccezione del nostro Partito, il resto della sinistra nel nostro Paese è stata forse la fazione più vocale nel chiedere sanzioni alla Russia e nel considerare l’esportazione di armi in Ucraina, e non mi sorprenderebbe se un giorno chiedesse anche l’esplicita adesione alla NATO.

2- “L’esercito deve concentrarsi sulla sua capacità di difesa. Raccomandiamo di aumentare il bilancio della difesa all’1% del prodotto interno lordo entro il 2030”. Mi chiedo se questo abbia qualcosa a che fare con la preparazione alle pressioni degli Stati Uniti (in particolare di un’eventuale amministrazione Trump) sui membri della NATO affinché aumentino la quota della loro spesa militare. In caso contrario, che tipo di minaccia militare vede il governo svizzero e perché vuole aumentare la spesa?

Oggi la Svizzera non ha minacce militari di cui preoccuparsi. Siamo al centro dell’Europa circondati da Paesi della NATO, quindi immaginare un’invasione “classica” è assurdo, se non da parte della NATO stessa (ma allora perché ripetiamo che sono nostri amici e alleati?), ma non se ne vede il senso o l’utilità. Non vedo nemmeno i rischi seri e concreti, per esempio, di un attacco missilistico alla Svizzera, che non mette a rischio la sicurezza di nessuno. Paradossalmente, invece, è proprio rafforzando la cooperazione militare con la NATO, pensando di esportare materiale bellico in Paesi in guerra, o pensando di inviare i nostri soldati all’estero, insomma abbandonando la nostra storica neutralità, che questo rischio si concretizza. Di fatto, così facendo, ci schieriamo e diventiamo parte di un blocco militare, sul quale non abbiamo nemmeno alcun potere decisionale. Questo significa, in caso di conflitto su larga scala, diventare obiettivi militari legittimi per la controparte.

Non credo che gli appelli all’aumento delle spese militari riguardino esclusivamente questa specifica dichiarazione di Trump per spingere i Paesi della NATO ad aumentare i contributi, anche perché gli appelli all’aumento dei bilanci per la difesa della Svizzera provengono dai settori militari regolarmente e molto prima di queste dichiarazioni, ma certamente devono essere collocati nel contesto della corsa agli armamenti in corso in tutto l’Occidente per prepararsi alla guerra con la Russia e la Cina, e un ingresso della Svizzera nella NATO richiederebbe anche un aumento delle spese militari per far fronte ai suoi obblighi e mostrare “credibilità con i nostri partner”, come piace ripetere spesso il nostro governo.

3- Il calo dei ricavi dei commercianti di armi svizzeri potrebbe avere un ruolo in questa decisione? Pensa che gli Stati Uniti abbiano un ruolo in queste discussioni?

Anche in questo caso credo sia possibile parlare di un intreccio di motivazioni politiche interne e internazionali.

Se si guardano i dati in prospettiva, anche se in modo molto irregolare, le esportazioni di armi svizzere dalla fine degli anni ’90 sono cresciute. Negli ultimi 2-3 anni, alcuni Paesi dell’UE si sono lamentati del divieto della Svizzera di esportare armi per inviarle all’Ucraina e hanno dichiarato, come forma di pressione, che non faranno più affidamento sulle nostre forniture in futuro perché questo divieto la rende un partner inaffidabile. Poiché nel 2023 si è registrato un calo del 27% delle esportazioni di armi, l’industria degli armamenti e la parte della borghesia che la sostiene hanno fatto propria questa narrazione e la stanno sfruttando per ottenere un allentamento dei vincoli all’esportazione di armi e perseguire così i propri interessi e profitti. In realtà, se si guardano i dati, il calo che c’è stato nel 2023 è molto simile a quello registrato tra il 2020 e il 2021, o nel 2011 e 2012, quando la guerra in Ucraina esisteva ancora solo nei cassetti della NATO.

Per quanto riguarda il budget dell’esercito, se è vero che nel 1990 veniva investito nella difesa nazionale l’1,4% del PIL rispetto alla quota odierna dello 0,7%, è anche vero che da circa 10 anni c’è stata un’inversione di tendenza: il budget è passato dai 3,95 miliardi del 2010 ai circa 5 miliardi del 2021. Recentemente è accaduto anche un fatto interessante: l’Esercito svizzero ha improvvisamente “scoperto” di avere 1 miliardo di franchi in meno rispetto a quanto necessario per pagare gli acquisti di difesa già effettuati. Negli ultimi anni, guarda caso, sono stati firmati accordi per l’acquisto di nuovi jet da combattimento (l’F-35 di produzione statunitense) e per il potenziamento dei sistemi di difesa aerea (il sistema Patriot di produzione statunitense).

I pianificatori militari sapevano benissimo da anni che questi acquisti avrebbero reso impossibile rispettare i vincoli di bilancio esistenti, ma hanno proceduto lo stesso e, per di più, il governo ha continuato ad approvare nuovi ordini di armi, vivendo al di sopra delle proprie possibilità. Ci si chiede se ci siano state pressioni per procedere comunque all’acquisto di questi sistemi d’arma statunitensi nonostante lo stato delle finanze militari (questi sistemi, tra l’altro, creano pericolosi vincoli tecnologici del nostro Paese nei confronti degli Stati Uniti, e quindi anche vincoli politici, ma questo è un argomento che meriterebbe una conversazione ad hoc). Tuttavia, la guerra in Ucraina si è rivelata un colpo di fortuna ed è stata l’occasione per iniziare a discutere, con il pretesto della minaccia posta dalla Russia alla sicurezza globale, di un aumento del budget dell’esercito che si intende portare all’1% del PIL, andando a risolvere parzialmente i buchi causati da errori di pianificazione finanziaria. A queste ragioni di politica interna va ovviamente aggiunto anche il fatto che se la Svizzera vuole intensificare la sua cooperazione con la NATO, aumentare la sua partecipazione ai programmi dell’Alleanza e dell’Unione Europea, prepararsi alla “nuova guerra fredda” e dimostrarsi un “partner affidabile”, queste spese dovranno aumentare.

4- Che cosa ha portato, in breve, la Svizzera a perseguire una politica estera “neutrale”? È favorevole alla continuazione di questa politica di neutralità oggi? Come pensa che la Svizzera debba perseguire la sua politica estera?

La storia della neutralità svizzera è lunga e complessa, tuttora oggetto di dibattito e, dato il contesto odierno, sfruttata e piegata a piacimento.

Quel che è certo è che il 20 novembre 1815, in applicazione delle decisioni del Congresso di Vienna, la Svizzera ottenne il riconoscimento internazionale della sua neutralità, anche nell’interesse del resto d’Europa in quanto fattore di promozione della pace e di stabilità sul continente. Va detto che in realtà il concetto di neutralità non è mai stato codificato tra gli scopi della Confederazione e compare chiaramente solo in un articolo della Costituzione sui poteri del Parlamento e del Governo federale, a cui va aggiunta la firma della Convenzione dell’Aia del 1907 sul diritto di neutralità, che però è ormai molto datata e copre solo alcuni ambiti della questione che hanno poca rilevanza in questo discorso. Tuttavia, questo riconoscimento internazionale della neutralità sarà sufficiente alla Svizzera per posizionarsi nel tempo come figura di mediazione, aumentando il suo prestigio diplomatico e le sue sedi internazionali, costruendosi un ruolo di attore credibile e affidabile in questo ambito. Non voglio sembrare ingenuo: sappiamo che la neutralità svizzera è stata più volte sfruttata dalla classe dirigente per i propri affari, basti pensare al periodo dell’apartheid e ai legami della Svizzera con il governo del Sudafrica di allora. Sappiamo anche che la Svizzera durante la Guerra Fredda, pur non essendo ufficialmente schierata, era certamente molto più vicina alla NATO e al blocco Occidentale e che ci furono diversi contatti tra la Svizzera, la NATO e altre strutture di questo blocco. Tuttavia, ciò che conta davvero è che la Svizzera era politicamente riconosciuta come uno Stato neutrale nel mondo. Questo le ha permesso, ad esempio, di fungere da piattaforma di dialogo tra l’Occidente e il blocco sovietico e, ancora pochi anni fa, tra la Federazione Russa e gli Stati Uniti. Dopo quanto deciso in relazione alla guerra in Ucraina, questo rischia di non poter più accadere. La Russia ha detto chiaramente che siamo diventati un Paese ostile e inaffidabile e non si può escludere che, visto il nostro comportamento e la nostra insistenza nel rafforzare i legami con l’UE e la NATO, altri Paesi comincino a pensare lo stesso e a sospettare della nostra affidabilità.

Come Partito Comunista, non possiamo accettarlo. Siamo sempre stati a favore della neutralità della Svizzera, e oggi questo vale ancora di più. Con l’emergere di un mondo multipolare, questa tradizione deve essere rivendicata e rafforzata, sia perché è una migliore garanzia per la sicurezza nazionale del nostro Paese, ma soprattutto perché solo mantenendo una politica di neutralità permanente, rifiutando i blocchi militari, e fungendo da piattaforma di dialogo e da ponte tra l’Occidente e il resto del mondo, la Svizzera potrà contribuire alla costruzione di un nuovo ordine internazionale, basato sulla cooperazione, sul rispetto reciproco e sulla non ingerenza negli affari degli altri.

Per questo è urgente che il nostro Paese inverta la rotta finché è ancora in tempo, ma bisogna farlo in fretta e serve qualcuno che abbia coraggio e indipendenza politica. Purtroppo, come già detto, a sinistra siamo rimasti l’unico partito a dirlo. Fortunatamente, però, una parte della borghesia nazionalista svizzera porta ancora avanti questo discorso e ha recentemente lanciato un’iniziativa, sostenuta anche dal nostro Partito, per l’inserimento della neutralità permanente nella Costituzione federale e per il divieto di adesione ad alleanze militari. Questa iniziativa, che sarà sottoposta a votazione popolare, è per noi comunisti svizzeri la battaglia assolutamente prioritaria dei prossimi anni. Senza neutralità, la Svizzera è destinata a aderire alla NATO e all’Unione Europea, perdendo la propria sovranità nazionale, il che significa anche l’impossibilità di procedere a riforme sociali ed economiche a favore dei lavoratori e del Paese, ma significa anche mettere a rischio la sicurezza nazionale e potenzialmente dover preparare il nostro popolo alla guerra.